
Maturandi ribelli? Conformisti e coccolati dal mainstream
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Un tempo, la scuola era un’istituzione austera, severa, impegnativa. Non tollerava il fancazzismo, né tantomeno le rivendicazioni patetiche mascherate da protesta. Era una sfida da affrontare, non da aggirare. Chi voleva uscirne con successo doveva studiare, punto. E se c’era un malessere giovanile – perché c’è sempre stato – lo si affrontava con il carattere, con l’impegno, non abbandonando i banchi o cercando giustificazioni ideologiche alle proprie fragilità.
Oggi, invece, assistiamo alla pantomima dei “maturandi ribelli”, pronti a sabotare il proprio voto d’esame come gesto di protesta. Ma contro cosa? Non certo contro un sistema oppressivo. La verità è che questa forma di “dissenso” è perfettamente compatibile con la narrazione mainstream: lacrime generazionali, inclusività di facciata, retorica sul disagio, e ovviamente, nessun accenno alla responsabilità individuale. È il sistema stesso che promuove questo tipo di protesta sterilizzata, conforme, ripulita da ogni reale scontro. Una ribellione “autorizzata”, che non mette in discussione il potere, ma lo asseconda.
Chi oggi si indigna per la “risposta punitiva” del Ministro Valditara dimentica che una scuola seria dovrebbe, prima di tutto, esigere impegno. La scuola non è il luogo in cui sentirsi “accolti” a prescindere, ma quello in cui ci si forma per affrontare un mondo che non regala nulla. E se manca la fiducia dei giovani verso lo Stato, forse è anche perché lo Stato ha smesso di chiedere qualcosa in cambio, ha smesso di educare alla responsabilità e ha preferito l’assistenzialismo morale.
Quanto al paragone con il sistema britannico, spesso evocato come modello, viene usato strumentalmente per giustificare le carenze nostrane. Ma lo si capisce davvero? Il Regno Unito è meritocratico, sì, ma proprio per questo è selettivo, competitivo, duro. Le università chiedono risultati concreti, punteggi elevati, attività extracurriculari. Il prestito studentesco non è un diritto a costo zero: è un patto. Se non sei in grado di restituire, è perché il sistema ha fallito; ma intanto, tu hai dovuto dimostrare di meritarlo. Non è un’elemosina emotiva.
E allora la vera domanda è: quanti dei nostri “maturandi in rivolta” sarebbero disposti ad accettare un sistema così esigente? Dove si è valutati per quello che si fa, non per come ci si sente? Dove conta la performance, non il disagio? Dove lo Stato ti sostiene, sì, ma solo se tu dimostri di essere all’altezza?
Il problema dell’Italia non è che i giovani non vengono ascoltati, ma che sono cresciuti in un clima culturale che ha smantellato ogni principio di autorità, di merito, di gerarchia. È questo che ha prodotto una generazione fragile, incerta, e soprattutto conformista. Una generazione che si crede rivoluzionaria mentre ripete fedelmente il copione ideologico dettato dal potere culturale dominante.
In questa Italia gerontocratica, è vero, i giovani fanno fatica ad emergere. Ma non perché siano oppressi da un sistema brutale, bensì perché il sistema li tiene in uno stato di perenne adolescenza, senza chieder loro di crescere. E così l’unica “protesta” possibile è quella che non cambia nulla, non disturba nessuno, non mette in discussione le fondamenta. Una protesta socialmente accettabile, mediatica, perfettamente digeribile. In una parola: inutile.