
Ucciso due volte: prima dalla violenza, poi dalla narrazione che assolve le donne
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Alessandro Venier, 35 anni, è stato ucciso in casa sua, smembrato, chiuso in un bidone e coperto con calce viva. A confessare l’omicidio sono state la madre e la compagna, con cui viveva assieme alla loro figlia di sei mesi. Un delitto che, per la sua brutalità, dovrebbe far saltare ogni filtro, ogni esitazione. E invece, anche questa volta, il trattamento pubblico e mediatico segue uno schema ben noto.
Perché la vittima è un uomo.
E così inizia subito la seconda uccisione: quella simbolica. Quella fatta di narrazioni accomodanti, attenuanti emotive, profili umanizzanti delle assassine, e persino sottili colpe attribuite al morto. Mentre nelle aule giudiziarie si faranno le indagini, nell’arena pubblica è già iniziata la riscrittura dei ruoli.
La corsa alle giustificazioni
Fin dalle prime ore dopo la notizia, il tono dei media ha preso una direzione ben precisa. La compagna viene descritta come “diligente”, “una brava professionista”, ma “cambiata” dopo il parto. In lei “si è rotto qualcosa”, si legge. Si suggerisce uno stato confusionale, si insinua l’ombra della depressione.
Nel frattempo, la madre viene raccontata come una figura “nota e rispettata”, una presenza quotidiana e apparentemente insospettabile. Un altro tassello nel quadro delle attenuanti.
Il gesto omicida, che ha portato al sezionamento di un corpo e al tentativo di occultamento, viene riformulato come l’esito di una lite, o della tensione di una convivenza difficile. Il contesto familiare prende il posto della responsabilità personale. L’aggressione viene ridotta a una “reazione”, quasi inevitabile, quasi comprensibile.
L’ombra sulla vittima
In parallelo, la figura della vittima viene lentamente erosa. Alessandro, si legge, “non aveva una vita stabile”, “non seguiva le regole”, “non voleva più stare in Italia”. Descrizioni vaghe, ma sufficienti a insinuare che fosse difficile convivere con lui. Il messaggio è implicito ma chiaro: non era un uomo facile, forse qualcosa l’ha provocato.
Questo schema narrativo è purtroppo ben rodato: la vittima uomo viene opacizzata, le autrici della violenza vengono inquadrate come soggetti fragili, e il delitto viene assorbito dentro il racconto sociologico del “disagio”.
Se fosse stato un femminicidio?
Facciamoci una domanda semplice: cosa sarebbe successo se Alessandro avesse ucciso la compagna, l’avesse fatta a pezzi, e avesse nascosto il corpo in un bidone?
Avremmo avuto titoloni su tutti i giornali, mobilitazioni, dichiarazioni delle istituzioni, condanne unanimi. Si sarebbe parlato di femminicidio, di emergenza, di mostro da condannare senza esitazioni.
Invece, nel momento in cui le assassine sono donne, e la vittima è un uomo, tutto cambia: la narrazione rallenta, il linguaggio si addolcisce, le responsabilità si sfumano. La legge sull’ergastolo automatico, pensata per i reati relazionali, non si applica. Nessuna categoria speciale tutela gli uomini uccisi in ambito domestico.
La seconda morte
Alessandro è stato ucciso due volte.
La prima fisicamente, da chi avrebbe dovuto proteggerlo.
La seconda, dal racconto pubblico che lo ha rapidamente abbandonato, per non incrinare una certa narrazione.
Una narrazione che, quando parla di violenza, vede sempre l’uomo come colpevole e la donna come vittima. E se i ruoli si invertono, allora si cercano giustificazioni, distinzioni, eccezioni.
Un sistema che pretende uguaglianza ma la applica solo in una direzione, a seconda del genere coinvolto.
Serve una nuova onestà
Non si tratta di fare guerra al femminismo. Si tratta di chiedere parità vera. Anche nella giustizia. Anche nel linguaggio. Anche nel racconto.
Un corpo fatto a pezzi non vale meno perché era maschile. E una donna che uccide non merita attenuanti solo per il fatto di esserlo.
Fintanto che queste distorsioni continueranno, la violenza non sarà mai davvero affrontata, ma solo raccontata in modo comodo.
📢 Parliamone
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