
Accusata di omicidio premeditato e aggravato: scarcerata per accudire la figlia
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di Giovanni Dalle Bande Nere – Guerrigliero della penna
Il 25 luglio scorso, Alessandro Venier è stato ucciso nella sua casa di Gemona del Friuli. Il corpo è stato ritrovato cinque giorni dopo, smembrato, chiuso in un bidone di plastica e ricoperto di calce viva. Un delitto che, per dinamiche e premeditazione, ha sconvolto l’opinione pubblica. Ma non la giustizia. Perché oggi, a meno di una settimana dal ritrovamento, una delle due accusate è già stata scarcerata. E potrà crescere la figlia avuta dalla vittima.
Un piano, non un raptus
Secondo la ricostruzione degli inquirenti, Mailyn Castro Monsalvo, compagna della vittima, avrebbe pronunciato la frase chiave:
«L’unico modo per fermarlo è ucciderlo».
Poi, insieme alla suocera Lorena Venier, avrebbe messo in atto il piano. Sedativi. Insulina. Strangolamento con lacci delle scarpe. Infine, il corpo viene tagliato a pezzi e occultato con calce viva. Mailyn, nei giorni successivi, continuava a portare a spasso la neonata come se nulla fosse accaduto.
Non si è trattato di una reazione d’impulso, ma di un’azione fredda e pianificata.
Era ancora vivo quando lo hanno fatto a pezzi?
La domanda che nessuno vuole fare è forse la più agghiacciante: e se Alessandro era ancora vivo quando è stato mutilato?
L’autopsia lo chiarirà, forse. Ma il dubbio esiste, ed è il segno più brutale di una violenza disumana.
Scarcerata. Perché madre
Oggi, Mailyn non è in carcere. È stata trasferita in una struttura protetta a Venezia, grazie alla legge entrata in vigore nell’aprile 2023, che consente la custodia attenuata per madri con figli sotto l’anno di età.
Si trova nella Casa di Reclusione femminile della Giudecca, all’interno dell’ICAM (Istituto a Custodia Attenuata per Madri).
Non è un carcere tradizionale: Mailyn vive lì con la figlia, nella stessa stanza. Le madri e i bambini condividono ambienti privi di sbarre, arredati come piccoli appartamenti: letti, cucina, bagno con vasca, ludoteca, giardino esterno.
Non si tratta di visite o incontri limitati. Mailyn convive con la figlia, giorno e notte, in uno spazio sorvegliato ma familiare.
I bambini possono frequentare un nido esterno e partecipare ad attività educative. Il personale è in abiti civili. L’ambiente è pensato per ricostruire una “normalità”.
La giustizia rovesciata
Mailyn è accusata di omicidio pluriaggravato, istigazione all’omicidio, occultamento e vilipendio di cadavere. Ma la legge le riconosce un diritto: essere madre, anche dopo aver spezzato la vita del padre.
Nel frattempo, la narrazione pubblica ha già preso posizione. Alessandro diventa “violento”, “controllante”, “ambiguo”. Si parla di sue denunce, di una presunta condanna, persino di un sogno di espatrio in Colombia. Tutto per scolorire l’impatto morale del delitto. Per normalizzarlo.
Chi resta senza voce
La stampa racconta Mailyn come una vittima. La giustizia la protegge come madre. La società la giustifica come donna.
E Alessandro? Non può difendersi. Non può raccontare la sua versione. Non può vedere sua figlia.
Chi è la vera vittima?