
Caso Liliana Resinovich: quando il sospetto diventa un ergastolo anticipato
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Da quasi quattro anni, Sebastiano Visintin vive in una sorta di ergastolo dell’opinione pubblica. Non è un detenuto, non è stato processato, ma è stato trasformato nel “colpevole perfetto” del caso Resinovich: un volto, un nome e una storia su cui riversare la sete di giustizia e la voglia di simboli.
La cronaca giudiziaria racconta altro. Dopo la scomparsa e il ritrovamento del corpo di Liliana Resinovich nel dicembre 2021, la Procura aveva inizialmente propenduto per l’ipotesi del suicidio. Negli anni successivi, le indagini non hanno mai prodotto una prova concreta contro il marito. Anzi: ogni accertamento ha finito per confermare la coerenza delle sue dichiarazioni e la solidità del suo alibi.
Le ultime perizie sono eloquenti:
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Impronta “guantata”? Non era un guanto, ma la trama dei jeans di Liliana.
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Guanto vicino al cadavere? Incompatibile con l’impronta sul sacco.
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Esperimento scientifico? Replicando le condizioni e i materiali originali, si ottiene la stessa impronta, senza intervento di terzi.
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Alibi di Visintin? Confermato dalle immagini e dal GPS della sua GoPro, in linea con la ricostruzione della Squadra Mobile.
Eppure, la macchina mediatica non si è fermata. Quasi quattro anni di titoli, insinuazioni, interviste e ricostruzioni più o meno fantasiose hanno cementato nell’immaginario collettivo l’idea che Visintin fosse “l’uomo da incastrare”. Forse perché serviva un volto da associare alla lotta contro il femminicidio, un simbolo da brandire nella battaglia — sacrosanta — contro il patriarcato.
Ma la giustizia non può essere costruita sui simboli a scapito della verità. Confondere il piano della denuncia sociale con quello della prova giudiziaria significa sacrificare una persona sull’altare della narrativa. E quando, come in questo caso, la gogna mediatica si protrae in assenza di elementi oggettivi, il confine tra informazione e linciaggio diventa pericolosamente sottile.
Il caso Resinovich, al di là del suo esito giudiziario, dovrebbe farci riflettere su una domanda scomoda: quante vite si possono distruggere in nome di un racconto che “funziona” bene in prima pagina?
di Giovanni delle Bande Nere